Ubuntu e l’Interconnessione Umana: Un’Analisi Multidisciplinare

Ubuntu, Sawubona, interconnessione umana e psichedelia: tra filosofia e scienza. Excursus di Psicologia positiva, benessere personale e collettivo. Analisi multidisciplinare

Dott. Antonio Orlando

11/5/202522 min leggere

two women in traditional african - american style clothing
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Ubuntu e l’Interconnessione Umana: Un’Analisi Multidisciplinare

“Umuntu ngumuntu ngabantu” tradotto: “una persona è persona attraverso le altre persone” (Appiah, K. A. (1992); Battle, M. (2009). Questo proverbio sudafricano esprime il cuore del concetto di Ubuntu, una filosofia africana antica che sottolinea l’interdipendenza tra gli esseri umani. Nato nelle culture bantu dell’Africa sub-sahariana (in lingue come Zulu, Xhosa, Shona, ecc.), il termine Ubuntu spesso tradotto come “umanità verso gli altri” riflette l’idea che la nostra umanità si realizza solo nella comunità e nella relazione reciproca (Appiah, K. A. (1992); Battle, M. (2009). In questo saggio esploreremo in profondità il significato, le origini culturali e il valore antropologico e filosofico di Ubuntu, esaminando come questa visione possa influenzare il benessere personale e collettivo alla luce delle più recenti ricerche scientifiche. Metteremo in dialogo Ubuntu con prospettive della psicologia positiva, psicologia esistenziale e approccio umanistico, attraverso autori come Martin Seligman, Viktor Frankl, Carl Rogers e Abraham Maslow. Successivamente, confronteremo Ubuntu con principi affini di grandi tradizioni religiose e spirituali (cristianesimo, buddhismo, confucianesimo, e altre) che promuovono interconnessione, compassione e la dissoluzione dell’ego. Nella seconda parte, adotteremo una prospettiva critica per discutere l’effetto di sostanze psichedeliche (come la psilocibina) nel favorire stati di unità e dissoluzione del sé, mettendoli in relazione con il pensiero filosofico di Baruch Spinoza e con alcune ipotesi speculative derivate dalla fisica quantistica. Valuteremo la coerenza di tali accostamenti alla luce delle conoscenze scientifiche e filosofiche attuali, distinguendo i parallelismi fondati dalle interpretazioni forzate. Infine, approfondiremo il significato del saluto zulu “Sawubona” letteralmente “noi ti vediamo” e di altri saluti o concetti analoghi in culture diverse (come namaste in India o in lak’ech nelle culture maya) che riflettono il riconoscimento dell’altro come parte di sé. L’obiettivo finale è identificare, con uno sguardo multidisciplinare, quali pratiche e visioni del mondo possano favorire un autentico benessere personale e collettivo, promuovendo felicità, consapevolezza e un’interconnessione autentica tra gli esseri umani.

Ubuntu: Significato, Origini e Valore Filosofico e Antropologico

Il termine Ubuntu proviene dalle lingue bantu dell’Africa australe (ad esempio hunhu in Shona, botho in Sesotho) e indica letteralmente la qualità di essere “umano”. La parola condivide la radice -ntu (“essere umano”) in diverse lingue locali, sottolineando una comune concezione di umanità condivisa. Dal punto di vista antropologico, Ubuntu incarna una filosofia etica comunitaria: afferma che l’identità e la dignità di ciascun individuo nascono dalle relazioni con gli altri membri della comunità (Battle, M. (2009). Desmond Tutu (1999), arcivescovo e attivista sudafricano, descriveva Ubuntu come il sapere profondo che “tu non puoi esistere in isolamento”, poiché esistiamo in un tessuto di interdipendenze. In altre parole, per Ubuntu ogni individuo deve il suo essere persona al riconoscimento e al sostegno reciproco nella comunità: “I am because we are” (“io sono perché noi siamo”) è la formula resa celebre in inglese. Questo principio ribalta la prospettiva individualista tipica di molta filosofia occidentale, ponendo l’accento non sul Cogito ergo sum cartesiano, ma su un “Cognatus ergo sum”, ossia “sono in relazione, quindi esisto(Pobee, JS 1979). La filosofia Ubuntu valorizza la collettività rispetto all’individuo isolato, promuovendo condivisione, lealtà e mutualità: i benefici e i fardelli devono essere condivisi equamente, mettendo l’interesse della comunità al di sopra dell’egoismo individuale.

Dal punto di vista storico-culturale, concetti analoghi ad Ubuntu si ritrovano in molte società africane precoloniali, nelle quali la coesione del clan e l’etica della reciprocità erano condizioni di sopravvivenza. Nei decenni successivi alla colonizzazione e all’apartheid, pensatori africani hanno rivalutato Ubuntu come filosofia autoctona per la ricostruzione sociale: ad esempio in Sudafrica, Ubuntu è stato invocato come base per la giustizia riconciliativa e il perdono dopo l’apartheid, enfatizzando l’umanità condivisa tra ex nemici. I filosofi Mogobe Ramose, Stanlake e Tommie Samkange, e lo stesso Tutu, figurano tra i primi a elaborare Ubuntu in testi scritti a fine ’900 (Mogobe Bernard Ramose (1999; 2014); Stanlake Samkange e Tommie Marie Samkange (1980). Essi definiscono Ubuntu come “umanità” o “qualità dell’essere umano” (Ramose) e come un umanesimo africano fondato sul rispetto della dignità altrui (Samkange). Michael Onyebuchi Eze e Thaddeus Metz (2010; 2007), filosofi di generazioni successive, ne hanno ampliato la portata teorica: Metz, ad esempio, propone Ubuntu come principio cardine di un’etica africana, basata sulla massimizzazione dell’armonia comunitaria e della compassione reciproca. Dunque, dal punto di vista filosofico Ubuntu abbraccia una visione olistica dell’esistenza: metafisicamente, implica che l’essere di ogni persona è intrecciato con l’essere altrui e con la natura; eticamente, comanda virtù come la benevolenza, la gentilezza, l’ospitalità e la generosità; epistemologicamente, riconosce che la conoscenza e la coscienza individuali emergono e si arricchiscono solo attraverso il dialogo e la condivisione nella collettività. Si tratta dunque di una filosofia relazionale che unisce dimensione spirituale e pratica sociale.

Ubuntu e il Benessere: Prospettive Psicologiche Moderne

L’enfasi di Ubuntu sull’interconnessione umana e la condivisione ha conseguenze dirette per il benessere individuale e collettivo. Le moderne scienze psicologiche confermano che il legame con gli altri è un ingrediente fondamentale della felicità e della salute mentale. La psicologia positiva, inaugurata da Martin Seligman e colleghi, individua nelle relazioni positive e nel senso di appartenenza due pilastri essenziali del benessere ottimale (nel modello PERMA di Seligman, Positive Relationships e Meaning sono componenti chiave). In effetti, ricerche mostrano che le relazioni di sostegno reciproco amplificano le emozioni positive, il senso di appartenenza e di scopo, fungendo da antidoto naturale contro stress e crisi personali. Da un punto di vista evolutivo, l’essere umano è una creatura intrinsecamente sociale: siamo “programmati” per connetterci e cooperare; sentimenti come amore, empatia e altruismo hanno permesso alla nostra specie di sopravvivere e prosperare in comunità. In quest’ottica, la filosofia di Ubuntu che “abbraccia l’interdipendenza fra gli esseri umani e tutta la creazione” (Udah, H., et al, (2025) e afferma che “il benessere dell’individuo è inseparabile da quello collettivo” risuona profondamente con i risultati della psicologia positiva contemporanea. Come sintetizza un recente studio, “Ubuntu, spesso riassunto dalla frase ‘io sono perché noi siamo’, rispecchia le intuizioni di psicologi come Seligman e Csikszentmihalyi sull’importanza della comunità e delle interazioni positive per il benessere ottimale”.

Anche la psicologia umanistica e l’esistenzialismo evidenziano aspetti affini ad Ubuntu. Viktor Frankl, psichiatra esistenziale, sosteneva che il significato della vita si scopre attraverso il trascendimento del proprio ego, dedicandosi a uno scopo più grande o amando un’altra persona. “La felicità non si persegue, deve conseguire”, scrive Frankl; essa scaturisce come effetto collaterale di una dedizione a qualcosa di più grande di sé o di un abbandono a qualcuno al di fuori di sé (Frankl, V. E. (1985). In altre parole, servire gli altri e contribuire al bene comune è ciò che, paradossalmente, porta realizzazione personale: “Quando trascendiamo noi stessi e ci focalizziamo sul servire gli altri, la felicità diventa un sottoprodotto”. Questo messaggio corroborato dall’esperienza di Frankl nei campi di concentramento narrata in “Uno psicologo nei lager”, è perfettamente in linea con Ubuntu: il benessere autentico nasce dal riconoscere che siamo parte di un tutto e dall’agire di conseguenza con compassione e responsabilità verso gli altri. Allo stesso modo, nell’approccio centrato sulla persona di Carl Rogers, la crescita psicologica avviene all’interno di una relazione caratterizzata da empatia profonda, accettazione positiva incondizionata e autenticità. Rogers credeva che ogni persona possieda un potenziale innato di autorealizzazione, che sboccia però solo in un clima interpersonale che offra comprensione autentica e non giudicante. Ciò trova eco nell’etica Ubuntu, che valorizza la capacità di “vedere” realmente l’altro, di accoglierlo senza condizioni e con sincerità di cuore. Studi hanno infatti notato la convergenza tra Ubuntu e il modello rogersiano: entrambi pongono al centro empatia, rispetto e congruenza nelle relazioni umane, riconoscendo che l’individuo si forma e guarisce nel contesto di legami basati su queste qualità.

Infine, Abraham Maslow, uno dei padri della psicologia umanistica negli ultimi anni della sua vita aggiunse la “auto-trascendenza” al vertice della celebre piramide dei bisogni. Egli intuì che, una volta soddisfatte le necessità personali, l’essere umano aspira a trascendersi, ossia a perdersi in qualcosa al di là di sé: in un ideale, in una missione umanitaria, nell’unità col cosmo. Maslow descrive questo livello come caratterizzato da altruismo, spiritualità e servizio verso gli altri (D’Souza, J. (2018); McLeod, 2018). È notevole che Maslow stesso riconobbe come questa idea di trascendenza risuoni con valori tipici di filosofie collettivistiche come Ubuntu, fondate sul contributo al benessere altrui e della comunità. Alcuni studiosi contemporanei propongono persino una reinterpretazione “afrocentrica” della piramide di Maslow, sostenendo che in contesti comunitari africani l’autorealizzazione individuale non è un traguardo ego-centrato, ma piuttosto un processo sinergico in cui l’individuo si realizza realizzando la propria comunità (Christopher Zishiri, Simba Mugadza (2024). La ricerca mostra che programmi basati su principi di Ubuntu ad esempio in interventi di sostegno a orfani e persone traumatizzate riducano la solitudine, migliorino il benessere emotivo e favoriscano resilienza attraverso esperienze condivise (Mafumbate, R. (2025). Dunque, le evidenze psicologiche moderne confermano una saggezza che Ubuntu incarna da secoli: ci realizziamo pienamente solo con e attraverso gli altri. L’isolamento e l’egocentrismo, al contrario, impoveriscono il nostro benessere, mentre la solidarietà e il riconoscimento reciproco lo accrescono.

Interconnessione ed Ego nei Grandi Sistemi di Pensiero

Pur derivando da un contesto specificamente africano, Ubuntu esprime una verità universale che risuona in molte tradizioni filosofico-religiose del mondo. Nella visione cristiana, ad esempio, troviamo l’immagine paolina della comunità come “un solo corpo in Cristo, con molte membra” (Romani 12:5; 1 Cor 12:12-27). L’apostolo Paolo sottolinea che “se un membro soffre, tutte le membra soffrono; se uno è onorato, tutte gioiscono con lui”, affermando in termini teologici la solidarietà ontologica fra gli esseri umani. Anche Gesù di Nazareth predicò l’amore fraterno e l’uguaglianza spirituale “ama il prossimo tuo come te stesso” rafforzando l'idea che l’altro è un tuo altro sé, degno dello stesso valore. Il reverendo Martin Luther King Jr., radicato nella tradizione cristiana, espresse un concetto praticamente identico a Ubuntu: “Io non posso essere quello che devo essere finché tu non sei quello che dovresti essere”, evidenziando che il destino di ognuno è intrecciato a quello del prossimo. Nel Buddhismo, l’idea di interconnessione pervade l’intera dottrina: la nozione di pratītyasamutpāda (origine dipendente) insegna che “tutti i fenomeni sorgono in dipendenza di cause e condizioni reciproche”. Il maestro zen Thich Nhat Hanh parla di “inter-essere”, affermando che nulla esiste separatamente: “tu sei così come sei, perché io sono come sono”. Il Buddhismo inoltre enfatizza la compassione universale (karuṇā) e la dissoluzione dell’ego: il concetto di anātman (non-sé) insegna che l’idea di un io separato e permanente è un’illusione causa di sofferenza. Ubuntu riflette una saggezza simile: “molta della nostra sofferenza è causata dal negare l’interdipendenza… adottare la filosofia Ubuntu è un modo per recidere l’illusione dei sé separati e delle dualità”. Un parallelo esplicito è tracciato da alcuni autori: Ubuntu è l’antica saggezza africana affine a ciò che i buddisti chiamano la coproduzione dipendente o l’interessere. Entrambe le visioni invitano a trascendere l’ego individuale e riconoscere l’unità fondamentale con gli altri esseri.

Analogamente, nella tradizione del Confucianesimo troviamo l’ideale di ren (仁), tradotto come “benevolenza” o “umanità”. Ren è considerata la virtù suprema: significa amare gli altri e comportarsi con empatia e altruismo, vedendo ogni persona come legata da una rete di relazioni morali. Il carattere cinese 仁 è composto dai simboli di “uomo” e “2”, suggerendo proprio l’idea di umanità co-relazionale. Così come Ubuntu, il confucianesimo sottolinea che l’individuo esiste sempre in relazione agli altri: l’etica confuciana invita a trattare gli altri con reciprocità (il famoso “non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”) e a coltivare l’armonia sociale anteponendo il bene comune agli interessi egoistici. Di fatto, studiosi hanno notato come i valori confuciani e quelli di Ubuntu siano entrambi sistemi etici di stampo comunitario, in cui la persona trova la propria realizzazione nel ruolo sociale e nella famiglia ampliata (Bell, D.A. and Metz, T. (2011). Entrambi promuovono compassione, rispetto e dovere reciproco che Confucio chiama (dovere filiale) e Ubuntu chiama generica umanità condivisa.

Anche in altre tradizioni spirituali emergono concetti analoghi all’umanesimo relazionale di Ubuntu. Nell’Induismo e nello Yoga è noto il saluto “Namasté”, che significa “mi inchino al divino che è in te (riconoscendo il divino che è in me)”. Questo saluto, con le mani giunte al cuore, riconosce la sacralità e il valore intrinseco dell’altro, affermando in forma di preghiera che in ciascuno risplende la stessa luce divina. Similmente, presso i Maya del Centro America esiste il saluto “In lak’ech” a cui si risponde “Hala ken” che si traduce proprio con “Io sono un altro te e tu sei un altro me”. È stupefacente constatare come culture geograficamente e storicamente lontane convergano su un’identica intuizione: noi esseri senzienti condividiamo un’essenza comune, e riconoscere l’altro equivale a riconoscere sé stessi. Questa idea è presente anche nelle tradizioni mistiche occidentali: basti pensare a San Francesco che chiamava “fratello” e “sorella” ogni creatura, o alla corrente Sufi dell’Islam che tramite il concetto di tawhid (unità divina) vede tutte le anime come scintille di un Unico. Nella filosofia neoplatonica e in Spinoza (come vedremo più avanti) ricorre la nozione che tutto ciò che esiste è manifestazione di un’unità sottostante, per cui separazione e molteplicità sono, in ultima analisi, apparenti.

Dunque, Ubuntu condivide un nucleo di saggezza perenne: quell’etica dell’interessere e della compassione universale che ricorre nel Golden Rule (la “regola d’oro” presente in molte religioni), nelle visioni mistiche di annullamento del sé, e nei saluti rituali che riconoscono la dignità altrui come propria. Ciò suggerisce che la ricerca della felicità e della realizzazione umana trovi espressione ottimale non nell’esaltazione dell’ego separato, ma nel suo trascendimento ossia nel comprendere che “siamo tutti parte di un unico corpo” e nel comportarsi di conseguenza con amore, rispetto e solidarietà.

Il saluto Sawubona: “Io ti vedo, perché tu sei me”

Un’espressione culturalmente pregnante di Ubuntu è il saluto zulu “Sawubona”, che significa letteralmente “ti vedo (ti riconosco)”, spesso declinato al plurale come “noi ti vediamo”. Più che un semplice “ciao”, sawubona è un saluto profondamente filosofico e relazionale. Nel pronunciare Sawubona, si trasmette all’altro: “ti vedo nella tua unicità, riconosco la tua esistenza e la tua importanza”. La risposta consueta è “Ngikhona”, che significa “io sono qui” in altre parole “esisto perché tu mi vedi”. Questo scambio codifica l’idea che la nostra identità viene confermata dallo sguardo altrui: ciascuno di noi “diventa una persona” perché è visto, apprezzato e accolto dagli altri. In sostanza, dire “Sawubona” è come dire: “ti rendo visibile, ti faccio spazio dentro di me, ti riconosco come parte di me”. Nel contesto di Ubuntu, questo saluto quotidiano acquisisce un valore quasi sacrale: è un atto performativo che crea comunità, che porta all’esistenza chi viene salutato dichiarandone il valore intrinseco. È interessante notare i paralleli con altri saluti: come accennato, Namasté in ambito indiano porta un messaggio simile di riconoscimento dell’essenza divina nell’altro; e persino il comune “ciao” italiano, di origine veneziana, deriva da “s-ciavo vostro” (“schiavo vostro”), formula con cui ci si metteva umilmente al servizio dell’altro. In Sawubona, però, vi è esplicita la visione ubuntuista: la piena realizzazione di sé avviene nel momento in cui si riconosce l’altro nella propria pienezza. “We are because you are”, afferma in proposito un detto dell’Africa meridionale, sottolineando che la comunità esiste grazie ai legami di riconoscimento reciproco di ciascun membro. In altre culture africane troviamo concetti analoghi: ad esempio, un’espressione in lingua sotho recita “Motho ke motho ka batho”, identica nel significato a Ubuntu. Altrove, tra i popoli Bantu, l’espressione “Ka so bona” (nella lingua Tsonga) viene usata sia per salutare sia per dire “ti amo”, indicando come vedere davvero un altro sia atto d’amore. Perfino nelle culture indigene americane esistono formule inclusive: il popolo Lakota prega con le parole “Mitakuye Oyasin” (“tutti i miei parenti”), affermando l’interconnessione con tutti gli esseri. Questi esempi rinforzano una verità fondamentale: il linguaggio del saluto, nelle culture tradizionali, spesso veicola una concezione del mondo in cui l’altro è parte costitutiva del sé. Ci ricordano, nella pratica quotidiana, che ogni incontro umano è un’occasione sacra per confermare a vicenda la propria umanità.

Stati di Unità e Dissoluzione del Sé: Psichedelici, Spinoza e Ipotesi Quantistiche

Nella seconda parte di questo saggio spostiamo lo sguardo verso esperienze meno ordinarie ma affini nei temi: ci chiediamo in che modo sia possibile sperimentare soggettivamente quello stato di unità e dissoluzione dell’ego di cui Ubuntu e le tradizioni spirituali parlano. Negli ultimi anni, le ricerche in neuroscienze e psicofarmacologia hanno dedicato crescente attenzione alle sostanze psichedeliche (come psilocibina, LSD, DMT) per il loro potenziale terapeutico. Un aspetto centrale delle esperienze indotte da psichedelici è proprio il fenomeno noto come “ego dissolution” (dissoluzione dell’io) (Letheby, C., & Gerrans, P., 2017). Molti utilizzatori riportano, durante il picco dell’esperienza, di perdere il consueto senso di sé come entità separata, fino a sentirsi fusi con gli altri, con la natura o con l’intero universo (Lynn, S. J., et al., 2023). In termini fenomenologici, si distinguono due facce di questa medaglia: da un lato l’ego-loss (perdita dell’ego) che può includere aspetti inquietanti come depersonalizzazione, disorientamento o paura (il cosiddetto “bad trip”); dall’altro l’esperienza di unità mistica, caratterizzata da un profondo senso di comunione con un tutto più grande, accompagnato da euforia, meraviglia sacra e insight esistenziali positivi. Uno studio recente ha sviluppato una scala per misurare l’ego dissolution, trovando che essa comprende in realtà due dimensioni: ego-loss negativa e unità positiva. Le esperienze di unità sono associate a emozioni positive, mindfulness e a tratti di personalità come l’estroversione che predispongono alla connessione con gli altri. Questo suggerisce che l’ego dissolution “ben integrata” possa avere effetti benefici, facilitando apertura, empatia e nuove prospettive coerentemente con gli esiti terapeutici promettenti osservati in studi clinici sulla psilocibina per depressione, ansia esistenziale e dipendenze. Si ipotizza che il temporaneo “spegnimento” del sé egocentrico permetta all’individuo di riorganizzare la propria visione di sé e del mondo, attribuendo maggior valore alle relazioni, alla natura e ad aspetti spirituali della vita. In effetti, ricerche psico-neurologiche hanno rilevato che la profondità dell’esperienza mistica di unità sotto psichedelico correla con migliori esiti terapeutici (ad es. riduzione di ansia o dipendenza) a indicare che sentirsi “uno col tutto” può produrre durature ricadute positive sul benessere e l’atteggiamento esistenziale.

Scientificamente, è affascinante notare come la dissoluzione dell’io sotto psichedelici sia misurabile e specifica: uno studio condotto da Nour, Carhart-Harris e colleghi ha validato un questionario di Ego Dissolution Inventory (EDI), trovando che punteggi alti di dissoluzione dell’ego durante l’assunzione di psichedelici correlano fortemente con punteggi alti di esperienza unitaria mistica (misurata tramite Mystical Experience Questionnaire) (Nour, M. M., et al., 2016). In altre parole, più l’ego si dissolve, più si avverte un sentimento di unità con l’ambiente e l’universo. Non solo: lo stesso studio mostrò che questi effetti sono specifici dei composti psichedelici (agonisti dei recettori serotoninergici 5-HT2A) rispetto ad altre sostanze come alcol o stimolanti, e aumentano all’aumentare del dosaggio di psichedelico. Ciò suggerisce che esista una base neurobiologica peculiare per l’esperienza di “unità oceanica” descritta fin dal secolo scorso da William James (2002), parlò di “esperienze oceaniche”. Le neuroimmagini indicano che la psilocibina, ad esempio, riduce l’attività e la connettività di hub cerebrali come il default mode network, implicato nel mantenimento del senso di sé autobiografico. In parallelo, aumenta comunicazioni globali in reti cerebrali normalmente disgiunte, forse facilitando una percezione più integrata di sé-ambiente. Non a caso, il termine spesso usato dai soggetti è “dissoluzione dell’ego” o “morte dell’ego” (ego death), che in termini spirituali rievoca concetti di estinzione del sé presenti nel misticismo (ad esempio il nirvana buddhista letteralmente è “estinzione” del sé separato, e in alcune tradizioni sufi c’è il fanā’, l’annichilimento dell’ego nell’amato divino).

Queste sorprendenti consonanze tra l’esperienza psichedelica e le descrizioni mistiche hanno riacceso il dialogo tra scienza e filosofia. Baruch Spinoza, filosofo del Seicento, fu un precursore di una visione monistica e panteistica: nella sua Etica sostenne che esiste un’unica Sostanza infinita, chiamata Dio o Natura, di cui tutto e tutti siamo modi o parti. In altri termini, Spinoza vedeva l’individuo come un’onda all’interno dell’unico grande oceano dell’Essere. Egli parlò di una forma suprema di conoscenza intuitiva l’“amor Dei intellectualis” (amore intellettuale di Dio/Natura) in cui la mente umana sperimenta la propria identità con l’infinito, trascendendo le categorie ordinarie di spazio, tempo e individualità. Colpisce notare come numerosi resoconti di stati indotti da psichedelici descrivano proprio intuizioni monistiche di questo genere. Secondo alcuni autori contemporanei, la visione panteistica spinoziana l’unità di Dio, Natura, Mente e Materia è comunemente riscontrabile nelle intuizioni raggiunte con forti dosi di psichedelici. Ad esempio, il filosofo Walter Stace, studiando le esperienze mistiche (inclusi resoconti sotto mescalina o LSD), concluse che il panteismo è “imposto” dalle esperienze mistiche: ovvero, chi sperimenta uno stato di unità tende a riferire che “Tutto è Dio” o “Tutto è Uno”. Stace fu ispirato da William James, e vediamo James parlare degli stati mistici panteistici che le droghe possono causare nel suo classico volume, The Varieties of Religious Experience (James, W. (2002). Un ricercatore israeliano, Benny Shanon, dopo aver raccolto centinaia di testimonianze sull’ayahuasca (un enteogeno amazzonico), scrisse: “l’ayahuasca induce una visione metafisica idealistico-monista con accenti panteistici la realtà viene concepita come costituita da un’unica sostanza non-materiale identificata come Coscienza Cosmica” (Shanon, B. (2002). Non pochi partecipanti agli studi moderni sulla psilocibina riportano frasi del tipo: “ho sperimentato che tutte le cose sono uno e l’amore pervade l’intero universo”. Da queste convergenze nasce la domanda: le sostanze psichedeliche rivelano effettivamente una realtà ontologica di unità (come penserebbe un mistico o forse lo stesso Spinoza), oppure producono solo allucinazioni soggettive prive di valore di verità? Alcuni filosofi della mente suggeriscono che il patrimonio di intuizioni derivante da tali stati non vada liquidato semplicisticamente. Peter Sjöstedt-H, filosofo contemporaneo che studia la relazione tra filosofia e psichedelici, argomenta che il pensiero di Spinoza può offrire un framework concettuale per comprendere e integrare le esperienze di unità occasionate da sostanze psichedeliche. Le metafisiche monistiche di autori come Spinoza (o persino di certi fisici come Erwin Schrödinger) aiuterebbero a interpretare tali esperienze non come deliri, ma come possibili intuizioni sulla natura della mente e del cosmo. In effetti, Schrödinger uno dei padri della meccanica quantistica arrivò a postulare una sorta di unità della coscienza, scrivendo: "La coscienza, per sua natura, esiste solo al singolare.Vorrei dire che il numero totale di tutte le coscienze è sempre soltanto uno". Questo pensiero, espresso nel saggio Mind and Matter (1958) di Schrödinger, riecheggia l’idea che la molteplicità dei sé è un’illusione: c’è un solo Grande Sé universale un concetto non distante da certe filosofie vedantiche o dal Brahman indifferenziato delle Upanishad. Potremmo quasi dire che se Ubuntu afferma “io sono perché noi siamo” a livello sociale, Spinoza e Schrödinger affermano “io sono perché Tutto è (e Tutto è in me)” a livello cosmico.

Alla luce di queste riflessioni, è comprensibile la tentazione di costruire parallelismi audaci: l’esperienza di unità sotto psilocibina confermerebbe l’intuizione panteistica spinoziana, e persino la fisica moderna con i suoi modelli di realtà non-locali e campi unificati sembrerebbe puntare verso una concezione unitaria dell’esistenza, dando un fondamento scientifico a tali idee spirituali. Ciò nonostante, è cruciale adottare senso critico e rigore nel valutare queste corrispondenze. La storia del pensiero è ricca di pericolosi salti indebiti tra piani diversi: il fenomeno del cosiddetto “quantum mysticism” (misticismo quantico) ne è un esempio contemporaneo. Molti divulgatori New Age hanno preteso di usare la meccanica quantistica per dimostrare che “tutto è collegato” o che “la mente crea la realtà”, spesso travisando profondamente il significato delle teorie fisiche. È vero che la fisica quantistica, rispetto alla vecchia fisica classica, presenta caratteristiche sorprendenti che solleticano analogie mistiche: ad esempio, le teorie del campo unificato suggeriscono che forze e particelle diverse sono manifestazioni di un unico campo fondamentale (l’Universo sarebbe dunque, a livello di equazioni, un unico ente energetico in vibrazione). Inoltre, il fenomeno dell’entanglement quantistico mostra che due particelle possono rimanere connesse istantaneamente anche a distanze enormi, comportandosi come un unico sistema indivisibile, Einstein parlava di “spettrale azione a distanza” e oggi sappiamo che milioni di particelle possono entanglarsi formando un’unica rete unificata. Questi fatti indicano che a un livello fondamentale la separazione tra oggetti fisici è meno netta di quanto sembri, e che l’Universo stesso potrebbe essere nato da una singolarità iniziale comune (il Big Bang), avendo dunque un’origine unitaria per tutte le cose. Non pochi hanno colto in questo una curiosa risonanza con visioni spirituali: il concetto tantrico di “tela di Indra” in cui tutto l’esistente è interconnesso, o il principio neoplatonico dell’Uno che si manifesta nei molti. Tuttavia, bisogna ricordare che utilizzare la terminologia scientifica fuori contesto può portare a conclusioni arbitrarie. Philip Moriarty, fisico, ammonisce: “Secondo (alcuni guru) l’esperimento della doppia fenditura dimostra, fuori da ogni dubbio, che la nostra coscienza in qualche modo altera la realtà fisica. Spoiler: non è così”. Per quanto intrigante sia l’ipotesi che la mente influisca sul collasso della funzione d’onda quantistica (un’interpretazione promossa anni fa da Wigner e altri), non esiste ad oggi alcuna prova scientifica che la coscienza umana abbia effetti quantistici macroscopici o che fenomeni spirituali come la “comunione mistica” abbiano una spiegazione quantistica. Molti fisici storcono comprensibilmente il naso di fronte all’abuso di concetti quantistici per giustificare credenze mistiche. D’altra parte, alcuni pensatori (inclusi scienziati aperti alla filosofia) invitano a non chiudersi del tutto: la coscienza rimane uno dei grandi misteri irrisolti della scienza, e non è irragionevole esplorare nuovi paradigmi che escano dal materialismo riduzionista standard. Pertanto, l’accostamento di psichedelia, filosofia spinoziana e fisica quantistica va maneggiato con equilibrio: vi è certamente una coerenza poetica e concettuale nel notare che diverse discipline e pratiche puntano al tema dell’unità e dell’abbattimento dei confini dell’ego, ma non dobbiamo confondere metafora e dimostrazione. Alla luce delle scoperte attuali, possiamo dire che: (1) le esperienze di unità sotto psichedelici sono fenomeni soggettivamente reali e ora anche quantitativamente studiabili, con potenziali benefici psicologici, ma la loro interpretazione metafisica rimane personale; (2) la filosofia di Spinoza offre un quadro affascinante per pensare l’unità di mente e materia, ma non può essere convalidata sperimentalmente, è piuttosto una lente attraverso cui molti trovano senso nelle proprie esperienze transpersonali; (3) la fisica quantistica fornisce sorprendenti analogie di interconnessione, ma nessuna evidenza scientifica diretta collega i fenomeni quantistici agli stati mentali unitivi o a un “campo di coscienza” universale. In conclusione, tali accostamenti sono stimolanti e possono arricchire la nostra visione interdisciplinare, ma vanno presentati come congetture o ponti metaforici, non come verità assodate. Dopotutto, come disse il fisico Richard Feynman, “chiunque pensi di aver capito la meccanica quantistica, non la conosce davvero” e probabilmente lo stesso vale per la coscienza. Siamo ancora all’inizio di queste esplorazioni.

Conclusioni

Attraverso questo viaggio multidisciplinare, siamo giunti a riconoscere un filo conduttore: l’importanza dell’interconnessione autentica per il benessere umano. La saggezza di Ubuntu ci insegna che l’essere di ciascuno dipende dall’essere-con gli altri: nessun uomo è un’isola, e la felicità duratura nasce dalla partecipazione a una comunità di mutuo supporto, dall’avere scopi condivisi e dal riconoscere la dignità altrui come la propria. Le ricerche in psicologia positiva confermano empiricamente che relazioni sane, altruismo, gratitudine e senso di appartenenza accrescono la nostra felicità e persino la salute fisica. La psicologia esistenziale e umanistica ci ricorda che trovare significato oltre sé stessi, in un ideale, in un amore, in un servizio, è la via per realizzare il proprio potenziale e superare le crisi della vita. Le grandi tradizioni spirituali, ciascuna con il proprio linguaggio, convergono nel suggerire che abbattere le barriere dell’ego e coltivare compassione e unità con gli altri esseri allevia la sofferenza esistenziale e avvicina all’illuminazione. Anche la scienza moderna, con strumenti molto diversi, ci mostra l’essere umano come un animale sociale ed empatico, e l’universo come un tessuto di connessioni profonde dall’ecologia (pensiamo alla dipendenza reciproca degli esseri viventi) fino forse a livelli subatomici.

Abbiamo anche esplorato dimensioni non ordinarie dell’esperienza gli stati indotti dai psichedelici che forniscono uno sguardo esperienziale su cosa significhi davvero percepire l’unità fondamentale con il tutto. Tali esperienze, se ben integrate, possono generare un duraturo aumento di apertura mentale, di apprezzamento per la vita, di connessione spirituale e di consapevolezza della rete della quale siamo parte. È come se, temporaneamente privati dei confini dell’io, si toccasse con mano la realtà intuìta da Ubuntu: “io esisto in quanto parte di un tutto indiviso”. Questo può tradursi in cambiamenti positivi: maggior empatia, minor paura della morte, priorità riviste verso valori più umani e meno materialisti, tutti elementi che arricchiscono il benessere collettivo.

Tuttavia, abbiamo posto enfasi sulla necessità di approcci critici e responsabili. Non tutte le analogie sono valide: alcune restano metafore ispiratrici più che realtà dimostrate. È importante non cadere in sincretismi superficiali o pseudoscienza, ma allo stesso tempo mantenere la mente aperta al dialogo tra saperi. Filosofia, scienza e spiritualità possono incontrarsi in modo fecondo proprio sul terreno della domanda: cosa conduce al fiorire dell’essere umano? Le evidenze suggeriscono alcune risposte convergenti: la felicità autentica deriva dalla consapevolezza di non essere separati, dal sentirsi parte di qualcosa di più grande sia esso la famiglia umana, la natura vivente, o per i credenti il divino. Pratiche che coltivano questa consapevolezza, la meditazione, i rituali comunitari, la psicoterapia empatica, l’educazione alla solidarietà, e persino (in contesti controllati) le terapie assistite da psichedelici mostrano tutte il potere di guarigione insito nel risanare il senso di separazione e nel farci sperimentare connessione e pienezza di significato.

In conclusione, il concetto di Ubuntu e i suoi paralleli nelle varie discipline offrono una lente unificante attraverso cui guardare al benessere personale e collettivo. Ci rammentano che “essere in relazione” non è un aspetto accessorio dell’esistenza umana, ma la sua condizione essenziale e la sua cura più profonda. In un’epoca caratterizzata da individualismo, alienazione e frammentazione, riscoprire Ubuntu, ossia la nostra umanità condivisa potrebbe essere la chiave per promuovere una felicità più piena, una maggiore consapevolezza di sé e degli altri, e una società più coesa e compassionevole. Come recita un proverbio africano: “Se vuoi andare veloce, vai da solo. Se vuoi andare lontano, andiamo insieme.” Insieme, visti e riconosciuti l’uno dall’altro, andremo più lontano verso un autentico benessere comune.

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